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L’ora di greco di Han Kang: una delicata storia d’amore

recensione a cura di Gigi Agnano


Ideatore e fondatore de “Il Randagio – Rivista letteraria” nato il 15 ottobre 2023. Napoletano, è stato l’ideatore e il promotore da marzo 2021 a giugno 2023 de “La Librellula, la rivista d’informazione libraria” online e cartacea.


L’ora di greco è un romanzo breve di 163 pagine dense e profonde, di un’intensità poetica prossima alla riflessione filosofica tale da coinvolgere il lettore molto al di là del tempo necessario alla lettura. 

La trama è estremamente semplice: una donna e un uomo, ai quali Kang non dà nome – la voce maschile in prima persona e quella femminile in terza -, raccontano a turno scene della propria vita. La donna  è in un periodo particolarmente vulnerabile: soffre per la morte della madre e per la separazione dal figlio di sette anni affidato all’ex marito; e come conseguenza delle due perdite smette di parlare.  L’uomo, nel contempo, lasciata la Germania dove si era trasferito da bambino con la famiglia, tornato in Corea, sta a poco a poco perdendo la vista. I due s’incontrano in un’accademia privata di Seoul dove lei comincia a frequentare le lezioni di greco antico impartite dall’uomo a un gruppo di studenti. La donna scopre con ammirazione che nel greco di Platone i verbi “imparare” e “soffrire” sono molto simili e che quella lingua morta nella quale inizia a comporre versi è:

“Una lingua fredda e dura come una colonna di ghiaccio. Una lingua di un’autosufficienza estrema, in cui un vocabolo non ha bisogno di combinarsi con nessun altro per essere usato. Una lingua che fa aprire bocca solo dopo che il rapporto di causa-effetto e l’atteggiamento siano stati irrevocabilmente decisi.”



L’autrice, che non sorprende abbia cominciato la sua carriera di scrittrice con la poesia, scava contenuti con pochissime parole. Il linguaggio della Kang è come un borbottio di disperazione, la voce un organo atrofizzato, la narrazione rarefatta, per rendere palpabile al lettore il dolore dei suoi protagonisti. Non ci descrive la sofferenza, non è necessario, può bastare la forma narrativa, l’uso di volta in volta di una metafora evocativa capace di rappresentare il tormento interiore e l’alienazione dei suoi personaggi. 

La donna:

“… ha l’impressione di essere diventata un’ombra che striscia sulla superficie rugosa dei muri e del suolo, e sbircia da fuori la vita contenuta in un enorme acquario. È in grado di udire e leggere in modo distinto ogni singola parola, ma non riesce a schiudere le labbra ed emettere alcun suono.”

E l’uomo:

“La stilografica era ancora lì, esattamente come ricordavo. Era la stessa penna che avevo utilizzato, cambiando più volte il pennino, dal mio arrivo in Germania più o meno fino al secondo anno di università. Ho tolto il cappuccio, un po’ graffiato ma ancora in buono stato, l’ho messo in un angolo della scrivania e sono andato in bagno per sciogliere l’inchiostro secco. Dopo aver riempito il lavabo, vi ho immerso il pennino finché un filo sottile di inchiostro blu scuro ha iniziato a disegnare nell’acqua curve sinuose, in continua dissolvenza.”

L’Insegnante è attratto da quella donna silenziosa e decide di contattarla. Ha così inizio, quasi fosse inevitabile, la complicata relazione tra l’uomo che sta diventando cieco e la donna che non parla ma scrive poesie in greco. Ciascuno dei due, fino a quel momento inaccessibili, troverà nell’altro quello che manca al proprio mondo, sia dal punto di vista fisico che spirituale.

Uno dei momenti più toccanti del libro è molto probabilmente quello in cui, in una situazione d’emergenza, la studentessa traccia le parole con l’indice destro sul palmo della mano sinistra dell’insegnante, come se Kang volesse dare ad intendere che per comunicare si possano trovare alternative meno imperfette della lingua parlata.

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