“Ci sono alcune persone che possono dormire ovunque. Io no.”
Con questo rassicurante pensiero, che gli martellava le tempie, era la seconda notte che Ray avrebbe passato all’interno di quel non luogo, da cui non riusciva ad uscire.
D’altronde continuavano a dirgli tutto e il contrario di tutto.
E lui, rimaneva lì.
Non ricordava quale fosse il suo record personale di non sonno, ma stavolta era sicuro che avrebbe potuto batterlo.
Iniziò a sentirsi come un carcerato, il giorno in cui finisce la sua condanna.
“Ray non è arrivata la firma del giudice Avi, ti tocca passare un’altra notte in cella!”
“Come non è arrivata una firma? Ma stiamo scherzando? Ma sono tre anni che aspetto questo momento, Cristo di un Dio!
“Dicono che il giudice si sia preso un giorno di vacanza e non lo può firmare nessuno!”
“E’ uno scherzo Mickey, dai, dimmi che è uno scherzo!”
“Guarda mi piacerebbe, ma è proprio così, sono costernato”.
Che razza di parola è “costernato”??? Chi la usa???
Esistono termini che escono semplicemente vomitati da labbra inconsapevoli, accozzaglie di vocali e consonanti buttate a casaccio, che in un battibaleno diventano insostenibili: “costernato” è uno di questi.
Totalmente fuori luogo e inadatto a quel momento, come la forfora in un Cavalier King Charles Spaniel, quei cazzo di cani che costavano una fortuna e non avrebbero mai dovuto avere una imperfezione simile. Invece li pettini e nevica merda bianca! Roba da denuncia!
A volte, all’improvviso, nella testa di Ray gli arrivavano pensieri come su questa prigione che non aveva mai conosciuto, con nomi, cognomi e suppellettili vari, staccandolo con inaudita violenza dalla vita reale e che lo scaraventavano in un’altra dimensione.
Una sorta di autismo creativo, gli bastava un pensiero e si ritrovava in un episodio “Ai confini della realtà”.
Tutto questo in attesa di capire cosa fare. E ancora non aveva preso una decisione. Mentre avrebbe dovuto!
Però non era in carcere, anche se forse in una cella avrebbe dormito decisamente meglio rispetto a quello che lo stava aspettando.
Ray faceva il fotografo da 25 anni, aveva iniziato nel suo studio “in un altro secolo” gli piaceva dire, nel 1999, grazie all’incontro con il fotografo Frankie Lomb e al suo assistente Ricky, un bizzarro fotografo che però essendo bipolare aveva difficoltà nella messa a fuoco.
Ma a differenza di Frankie, specializzato in still life, Ray era diventato un ritrattista.
Tra le persone che aveva fotografato gli piaceva ricordare Enzo Jannacci, Giorgio Gaber, Michael Douglas, Prince, Frank Corsaro, Abbas Kiarostami, Carmelo Bene, Heath Ledger, Gene Simmons, Isabel Allende, Orlando Bloom, Nikita Michalkov e Alda Merini.
Un connubio strano di persone, ma lui citava sempre queste.
Trovare della bellezza nella fisiognomica del volto, le proporzioni dei vari elementi, il naso, la bocca, gli occhi: questo per Ray era inseguire la perfezione.
Una volta aveva fotografato una giovane ragazza che aveva un naso un po' aquilino, durante il servizio, lei si lamentava tutto il tempo del suo “becco”, così lo chiamava, lui invece trovava che fosse proprio quella la sua bellezza.
Solo gli stupidi si fanno ammaliare dagli stereotipi, dai canoni riconosciuti, dalle convenzioni, chi fa arte deve cercare l’imperfezione, perché solo lei è portatrice sana della vera bellezza.
Anni dopo, la ragazza col becco, si era ripresentata con naso e tette nuove, lui le aveva detto che non poteva fotografarla. Si era rifiutato.
Lei gli aveva detto che era stata una richiesta del fidanzato (soprattutto le tette) e lui aveva pensato con che essere miserabile era andata a finire…
A Miami l’aspettava Sarah Balds, la bellissima e famosa attrice che a meno di trent’anni aveva già vinto il suo secondo Oscar.
Per un po' di anni era sparita dalle scene e adesso, a quasi 46 anni, era nuovamente candidata all’Oscar nel ruolo di Altea Rebblx.
Ray era sicuro che questa volta, con questo lavoro, con il ritratto della donna, sarebbe riuscito finalmente a fare la “foto perfetta”: ciò che ogni fotografo insegue per tutta la sua esistenza, il fine ultimo di anni di tentativi.
Ma Sarah Balds e Ray non si incontrarono mai. La vita prese un’altra direzione per entrambi.
NEWARK
Nelle zone d’imbarco dell’aeroporto di Newark, a New York, i posti a sedere erano due a due, fatti apposta così per impedire che la gente ci dormisse sopra.
Potevi aspettare, ma dormire no, non ti era permesso.
Un bambino forse ci sarebbe stato, ma un adulto mai.
Ray era entrato a Newark alle 12 di giovedì, con largo anticipo visto che il volo era alle 18.
Alle 16 avevano avvertito tutti i passeggeri che il volo era stato cancellato per un uragano su Miami, uno dei tanti, e sarebbe partito alle 23, alle 22 avevano fatto un altro annuncio che fino al giorno dopo non ci sarebbero stati voli.
Avevano proposto ai passeggeri di passare una notte in un hotel lì vicino a loro spese, ma Ray aveva preferito rimanere nell’aeroporto.
Gli era venuta un’idea.
E durante la notte l’aveva messa in atto.
Poi il giorno dopo avevano fatto lo stesso giochino, volo ad un certo orario, volo cancellato e così via e adesso era quasi mezzanotte, quindi erano esattamente 42 ore che non dormiva.
Anche per quella seconda notte, nonostante la poca lucidità dovuta alla privazione del sonno, Ray aveva scelto il suo “piano alternativo”, quindi non sarebbe andato nell’hotel gratuito che la compagnia aerea metteva a disposizione.
Chiunque avrebbe pensato di lui che fosse uno stupido, un idiota a non approfittare di questo, ma Ray era fatto così.
Era decisamente una persona ostinata.
Esistono due sole caratteristiche che fanno di un buon fotografo un grande fotografo: la curiosità e la pazienza.
E Ray abbondava in entrambi.
Per questo aveva deciso di restare dentro Newark, pur consapevole che dormire sarebbe stato impossibile.
Un aeroporto totalmente vuoto ha un fascino misterioso, indecifrabile, aveva deciso che quello poteva essere un buon momento, una occasione unica per fare degli scatti diversi, per creare qualcosa di unico.
Per la prima volta si sarebbe trovato davanti luoghi, strutture, elementi e non persone e volti.
Un deserto di elementi geometrici con forme e assonanze nuove che non aveva mai conosciuto e soprattutto fotografato.
E questo lo stimolava.
Iniziò a scattare tanto, tante, tantissime foto, cercava di entrare in sintonia con gli ambienti, carpire l’angolo giusto, alla ricerca di una inquadratura che lo stimolasse, gli rapisse i pensieri, il respiro, che gli provocasse la pelle d’oca.
A cui solitamente seguiva un’erezione.
E poi le vide.
E non erano persone.
Erano sei, tutte allineate estrose e colorate come elementi di un sestetto jazz, ma ordinate come in una filarmonica.
Subito dopo quell’apparizione, capì subito cosa stava per accadere.
Lui che era un fotografo ritrattista specializzato in volti.
Le fotografò e poi restò ad ammirarle.
Erano solo delle sedie.
Sei sedie.
Ma quella, restò per sempre, la sua foto perfetta
L'accenno alla forfora e impareggiabile 😄 grande Max, come sempre ci circondi di esperienze di vita condite da elementi ironici e personali, il fotografo ha qualcosa di auto biografico. Mi chiedevo quanto ci sia di Max in questo racconto.
"Solo gli stupidi si fanno ammaliare dagli stereotipi". È un po' la chiave di lettura di questa storia che ricorda che l'anticonformismo ti apre la possibilità di esplorare il mondo per trovare un senso ultimo, la propria perfezione.