
Esistono fratelli e fratelli.
Alcuni hanno differenze così profonde che sembrano appartenere a famiglie diverse, altri che fioriscono a intermittenza e infine quelli che si intrecciano come radici di un unico albero, inseparabili, con interessi comuni, stessa intimità di pensiero e stesso sguardo che accarezza il mondo.
Heigo e Akira non erano solo fratelli di sangue, ma appartenevano a quest’ultima categoria.
Ma solo tra loro due, visto che la loro famiglia era quasi una squadra di calcio, mamma, papà e otto figli!
In quella tribù così numerosa, il loro legame era come un'isola nel caos.
I genitori li chiamavano i “futago”, i gemelli, un soprannome che ne sottolineava il loro essere in continua simbiosi, un’affinità che andava oltre la semplice fratellanza.
Da bambini vivevano in una grande tenuta in campagna, ai margini di Tokyo, un rifugio famigliare che portava con sé l'eco di generazioni passate, essendo di proprietà della loro famiglia dalla metà dell’Ottocento.
Come un giardino che cresce spontaneamente, ogni famiglia coltiva le proprie tradizioni, usanze che involontariamente si creano col passare degli anni. Quella a cui loro tenevano di più, accadeva in estate, per tutto il mese di giugno.
Il padre Isamu li radunava tutti nel cortile, accendeva un grande fuoco e raccontava delle storie.
Questa usanza, come un faro nella nebbia, era per tutti loro un momento sacro, un appuntamento fisso nel calendario famigliare, atteso con trepidazione da tutti per tutto l’anno, indipendentemente dall'età che avevano, anche quando diventarono adulti, nessuno mancò mai.
Isamu, ultimo discendente di una lunga stirpe di guerrieri, era un cantastorie nato e la moglie Shima accompagnava il marito suonando il taiko, un tamburo a forma di barile.
Il capofamiglia era discendente della famiglia degli Abe, uno dei clan più importanti che avevano dominato il Giappone intorno all’anno mille e le sue storie intrecciavano una tradizione orale secolare e la sua smisurata fantasia.
In quell'atmosfera sospesa, solo la sua voce suadente e il ritmo ipnotico del tamburo rompevano il silenzio creando un'armonia malinconica e magica, come un canto d’amore per un'epoca passata.
Oggi vi racconterò un’altra avventura del nostro caro antenato Abe No Sadato, il cui nome era sinonimo di coraggio e lealtà.
Di lui esistono tante immagini dipinte in tutto il Giappone, ma nessuno oltre noi, conosce questa storia che mi è stata tramandata da mio padre e prima di lui dai miei nonni.
Sadato era un guerriero invincibile, un tuono nei campi di battaglia, ancora oggi i libri di storia ne celebrano le imprese, tramandando ai posteri la sua leggenda. Il suo onore non fu mai messo in discussione e fu sconfitto solo dal clan dei Minamoto che per convincere il loro capo che Sadato era veramente stato sconfitto dovettero portargli la sua testa dentro un sacco di iuta, trasportandola per oltre 500 chilometri.
La sua memoria è custodita gelosamente nel cuore della nostra famiglia come un tesoro prezioso.
Nessuno sa che Sadato di notte soffriva di insonnia e in quei pochi momenti in cui il sonno lo assaliva era sempre tormentato da incubi deliranti.
I suoi Sogni erano sempre ambientati nei Bassifondi di Kyoto, dove incontrava sempre un uomo cieco, che tutti chiamavano L’idiota per un motivo. Legato all’uomo con una lunga corda c’era un Cane randagio. Il cieco aveva una stranissima Barbarossa e non era usuale in Giappone vedere una barba di quel colore in quegli anni.
L'uomo e il suo fedele compagno, che vivevano in strada, trovavano rifugio in angoli dimenticati della città e quando trovavano un posto di loro gradimento si fermavano e mettevano in piedi un loro spettacolo, unico nel suo genere.
L’idiota alzava il volto al cielo e immaginava delle situazioni di battaglia, gente che combatteva, e a voce alta iniziava a descrivere le scene che vedeva.
Quando entrava in dettagli cruenti il cane abbaiava quasi a sottolineare l’efferatezza di ciò che stava accadendo.
In realtà l’animale capiva poco, ma era talmente forte l’enfasi dell’uomo in alcuni momenti, che la povera bestia non poteva far altro che ululare.
A storia finita, entusiasta della sua visione, l’uomo esplodeva in una fragorosa risata che andava avanti in modo isterico per diversi minuti, poi la risata diventava quello di un bambino, ma acuta come quello di una piccola bambina, creando una situazione straniante.
Questo ultimo frangente, quella risata infantile e femminile, gli aveva regalato appunto il soprannome “l’idiota”.
Ciò che Sadato ascoltava nei suoi sogni, nei racconti dell’uomo cieco, anticipava il futuro come un navigatore che legge le stelle. Le sue visioni, nitide e dettagliate come un dipinto, si trasformavano in realtà, dandogli un vantaggio in ogni combattimento dove conosceva in anticipo le mosse dei suoi avversari
Un giorno però fece sempre lo stesso sogno, ma dalla bocca dell’idiota non uscirono suoni, sentiva solo gli ululati del cane.
Fu spaventato a morte, come se fosse un presagio di qualcosa che poi realmente avvenne.
Durante una battaglia, nel momento più concitato della lotta vide arrivare verso di lui, in mezzo ai suoi avversari, quel cane che conosceva solo nei suoi sogni, lanciandosi a capofitto verso di lui.
Fu talmente attratto da quella immagine, che forse solo lui vide, che rimase immobilizzato e così una lancia trafisse il suo petto.
Con un ultimo respiro, il suo spirito si dissolse nell'aria, portando con sé i segreti di un'esistenza straordinaria.
La sua morte, improvvisa e tragica, segnò la fine di un'era, lasciando un vuoto incolmabile nel cuore dei suoi compagni.
In quel momento finì la vita terrena di Abe No Sadato, uno dei più grandi samurai di sempre, ma la sua leggenda vive ancora.
Quando finiva una storia Isamu, come un musicista che ascolta l’ultima nota suonata, chiudeva sempre gli occhi e restava in silenzio.
In quel silenzio carico di emozioni, il suo volto si rivolgeva verso la moglie, un gesto delicato come un petalo che si posa sull’acqua e solo dopo un po’ li apriva.
La donna si alzava e faceva un inchino verso i figli, che applaudivano sempre emozionati e con le lacrime agli occhi.
I loro genitori li trasportavano veramente in un’altra epoca, erano solo in due, ma era come assistere ad uno spettacolo con un’orchestra e una compagnia di attori professionisti, tanto erano bravi marito e moglie in quella messa in scena.
I due fratelli Heigo e Akira, che dormivano nella stessa stanza, dopo ogni storia si ritrovavano tutte le notti a parlare e ad inventare passaggi, ipotesi e variazioni sui racconti del padre.
“Il cane era vero o era nella testa di Sadato?”
“Quei sogni erano un maleficio della casata dei Minamoto fatti per indebolire il forte samurai”?
“Ma se non ci fosse stato quel cane avrebbe vinto lui e oggi sarebbe ancora vivo essendo immortale?”
Oppure inventavano situazioni ancora più incredibili: “l’idiota era sfuggito a un plotone di esecuzione che doveva giustiziarlo e dopo aver avuto una crisi epilettica iniziò ad avere quelle visioni”.
Tante storie inverosimili e meravigliose, cruente o delicate, irreali e fantastiche nascevano in quelle serate.
Akira e Heigo erano un duo inscindibile. Le parole di Akira, piene di immaginazione, trovavano vita grazie al talento del fratello. Quando il più piccolo descriveva 'un vento “indicibile”, Heigo non si limitava a fare rumore, si concentrava diventando un tutt’uno con il vento stesso. Il suo “shhhhuuuuuu!” era più di un semplice suono, era un'emozione condivisa, un legame indissolubile tra i due fratelli amici.
Per tanti anni anche da adolescenti e non più bambini andarono avanti con queste storie, ma un giorno il padre si ammalò gravemente e prima di morire solo davanti a loro due disse queste ultime parole:
“Fino a questo momento voi siete stati frutto della mia fantasia, adesso per voi inizia la storia vera”, parole che i due compresero solo molti anni dopo.
Heigo e Akira iniziarono a fare i lavori più disparati, ma un giorno il maggiore trovò un lavoro che lo rendeva felice e che lui avrebbe svolto con una dedizione totale: il Benshi.
Negli anni venti, quando l’arte del cinema era agli albori e i film erano ancora muti, solo in Giappone esiste va una figura unica, appunto quella del benshi; erano dei commentatori che, in piedi accanto allo schermo, narravano la storia, introducevano i personaggi e fornivano agli spettatori tutte le informazioni necessarie per godersi al meglio quella nuova attrazione.
Con le loro parole, innaffiavano i germogli di ciò che si vedeva, li facevano crescere e fiorire, creando un mondo magico dove il pubblico poteva perdersi e ritrovarsi.
Alcuni benshi divennero talmente famosi che oscurarono le stesse star del cinema. Il pubblico accorreva ai cinema non solo per vedere le pellicole, ma soprattutto per ascoltare le loro voci affascinanti.
Heigo fu uno dei più bravi, come un vero samurai, al pari di Abe No Sadato, aveva capito che quella era la missione della sua vita.
Il ragazzo non mancava mai di segnalare al fratello Akira i film più belli che vedeva, così mentre uno dei due commentava le immagini in sale sempre più gremite, l’altro si chiedeva come fosse possibile dar vita a mondi così fantastici? Chi erano le persone dietro quelle storie? Con gli occhi pieni di meraviglia e determinazione, decise che un giorno avrebbe voluto essere lui a creare quelle magie, a far sognare gli altri, sarebbe diventato un regista di film.
S’immaginava un film creato da lui con il fratello che lo commentava. E così iniziò a studiare i segreti del cinema con grande impegno.
Ma un giorno accadde l’irreparabile per Heigo, ci fu l’avvento del cinema sonoro.
Un’ondata di disperazione lo travolse, spezzando in mille pezzi i suoi sogni più preziosi. La sua anima, prima piena di luce, fu avvolta da un’oscurità opprimente, lasciandolo solo e smarrito.
A soli 28 anni Heigo fu ritrovato impiccato, Akira non vide il corpo ma restò sconvolto da questa tragedia e si ritrovò davanti ad un bivio: non guardare mai più nessun film per il resto della sua vita o diventare il più grande autore del cinema di tutti i tempi.
Nonostante i suoi trentuno film siano considerati dei capolavori, sono in pochi a ricordare come iniziò la leggenda del grande Akira Kurosawa, per molti il più grande regista mai esistito.
Racconto bellissimo,.forse il migliore. Molto introspettivo e profondo. Un bell'intreccio, una storia vera perché inizia da bambini, da tradizioni che toccano il cuore. Bravo Max!
Max non smentisce mai!
Il racconto offre una narrazione toccante e coinvolgente, intrecciando elementi storici del cinema giapponese, con una storia personale di passione e perdita. L'ambientazione negli anni '20 e il riferimento a Akira Kurosawa, (di cui ho letto qualcosa in passato) conferiscono autenticità e profondità al racconto. Complimenti al buon Max, per aver creato un intreccio emotivo e storico così ricco e significativo.
Bello! Come tutti i tuoi racconti