racconto di Cinzia Milite, selezionato tra i migliori racconti che parlano d'amore al Contest Letterario "R Come Romance" Edizioni del Loggione. "Se l'amore deve essere indimenticabile, fin dal primo istante devono posarsi su di esso le coincidenze"- Milan Kundera.
Un altro appuntamento al buio, incredibile ma vero! Vanessa e Marco, i miei due più cari amici me l’avevano fatta ancora: avevano organizzato di nuovo un incontro con uno sconosciuto a mia insaputa. Non si rassegnavano proprio a vedermi nella condizione di single felice. Il fatto che io, a quasi trent’anni, non facessi coppia fissa con qualcuno li destabilizzava e a nulla valevano le mie ragioni.
«Ragazzi la smettete? Quante volte vi devo ripetere che io ho già dato? Ho avuto una relazione fissa dai diciotto ai ventitré anni e mi è bastata. Sto bene così per il momento. Non sono in cerca di un fidanzato, voglio vivere giorno per giorno, dedicarmi al mio lavoro, ai miei amici e alle mie passioni.»
«Sarà, ma vuoi mettere condividere la quotidianità e la felicità con qualcuno di speciale per se stessi? E poi c’è un’altra cosa … il tempo passa!».
L’ultima affermazione, che puntuale veniva riproposta alla fine di qualunque discussione, era quella che mi disturbava di più. Sì, l’allusione allo scorrere inesorabile del tempo biologico dell’età fecondabile di una donna. In pratica, secondo i loro ragionamenti, avrei dovuto mettere in secondo piano o addirittura rinunciare alla mia neonata carriera di giornalista per pensare ad accasarmi e ad avere figli prima che fosse troppo tardi. Come se decidere scientemente di trovare un fidanzato desse garanzie di un risultato sicuro tra l’altro. A me piaceva molto il mio lavoro, avevo sudato tanto per arrivare dove ero arrivata, passando dall’essere un’articolista di un settimanale locale ad inviata speciale per una trasmittente televisiva regionale, in otto anni. Ma poiché il mio lavoro mi portava a viaggiare, quindi ad essere spesso lontano da casa, nei momenti liberi mi concedevo dei fine settimana di reclusione in completo relax, sciabattando in casa in pigiama tutto il giorno. Dopo aver scollegato tutti i telefoni, bivaccavo sul divano, ascoltando musica, leggendo o guardando la tivvù, sentendomi la regina del mio confortevole mondo. Me la stavo godendo e per così dire, di fidanzarmi ufficialmente e di programmare una maternità proprio non mi passava per la testa in quel momento. Ma Vanessa e Marco, non la vedevano così, anzi, mi commiseravano. Il fatto che declinassi i loro inviti e le uscite con gli altri amici del nostro gruppo li preoccupava.
Così, un fine settimana di inizio estate, mi avevano combinato l’ennesimo appuntamento al buio, mascherato da un innocente invito a cena. Peccato che, un paio d’ore dopo, li avevo beccati al supermercato con un carrello della spesa colmo di prelibatezze raffinate, non proprio da serata tra vecchi amici. Li conoscevo troppo bene e sapevo che gli alimenti acquistati servivano per far bella figura con qualcuno e non certo con me. Scoperti e sbugiardati, mi avevano pregato di partecipare lo stesso, promettendo solennemente che non lo avrebbero fatto mai più. Assicuravano che non me ne sarei pentita, perché il tizio che volevano presentarmi era un tipo speciale. «Okay, okay…Ma chi è e che fa, si può sapere? No, anzi, no: non me lo dite, forse è meglio che non lo sappia fino a stasera. Magari mi dite qualcosa che non mi piace su di lui e mi rovinate la giornata al pensiero d’incontrarlo.» Avevo acconsentito a malincuore, dopo le loro infinite insistenze. Ah, ma questa volta li avrei fatto passare la voglia di giocarmi questi tiri, pensavo guidando, mentre andavo via dal supermercato. Per ripicca, decisi che avrei fatto fare loro brutta figura. Certo, c’era la possibilità che questa volta la persona che volevano farmi conoscere mi sarebbe potuta piacere, ma visto i precedenti appuntamenti, ero sicura che non mi sarei persa niente di irrinunciabile.
Immersa in tutti i miei ragionamenti, uscii incautamente con l’auto dalla corsia per sorpassare, senza guardare gli specchietti. Giuro che non dimenticherò mai lo spavento che mi presi, perché così facendo urtai un motociclista nell’intento di sorpassare la mia auto. Il malcapitato fu sbalzato dalla moto e strisciò sull’asfalto parecchi metri in avanti, mentre la moto si schiantava di lato, per fortuna senza procurare danni né a cose né a persone. Dopo aver inchiodato, in un primo momento rimasi atterrita e paralizzata all’interno della mia auto e solo quando vidi il centauro muoversi, togliersi il casco ed alzarsi, uscii dalla macchina.
Il motociclista venne furioso verso di me. Provai sollievo nel vederlo sano e salvo, ma allo stesso tempo temetti il suo incedere rabbioso: ero convinta che volesse picchiarmi.
«Razza d’ idiota, ma che ti dice il cervello, eh?» esordì infuriato a pochi centimetri da me, fulminandomi con uno sguardo carico di disprezzo.
Poi, all’improvviso, strizzò gli occhi in una smorfia di dolore, si accasciò e rovinò su di me. Spiaccicata sulla fiancata della mia auto con tutto il suo peso addosso, cominciai ad urlare rivolgendomi ai passanti curiosi: «Chiamate un’ambulanza! Qualcuno chiami un’ambulanza!».
Cercai di sorreggerlo, ma scivolai di lato e alla fine cademmo entrambi distesi sull’asfalto, lui sopra di me: sembrava svenuto. Il suo peso mi soffocava, ma avevo paura di muovermi perché temevo che il farlo potesse provocare qualche danno e gridai aiuto. La mia voce lo fece rinsavire e mi guardò dritto negli occhi: «Carolina… Carolina Sarti , non posso crederci…» disse con un’espressione tra il sorpreso e il disgustato, poi con grande sforzo e una serie d’imprecazioni a denti stretti per il dolore si sollevò leggermente per rotolare di lato.
«Ivan? Ivan Serrani, sei tu?» domandai incredula, nel riconoscere un vecchio compagno di liceo.
«Pazza incosciente, maledizione…» fu la sua risposta, mentre da sdraiato cercava di prendere il cellulare nel taschino del giubbino di pelle.
« Mi…mi dispiace, non so com’è possa essere successo. Lascia che ti aiuti.»
«Non mi toccare!...Lo so io com’è è successo, sei la solita…ma lasciamo stare. Se vuoi renderti utile, va a vedere cosa è successo alla mia moto.» sbraitò premendo il tasto invio per telefonare. Si sentivano le sirene dell’ambulanza mentre assecondavo la richiesta di Ivan, ancora stordita per l’accaduto. Ivan Serrani, avevo investito il ragazzo al quale avevo rovinato l’ultimo anno di scuola al liceo. A quei tempi ero la redattrice del giornale della scuola, un giorno mi capitò di raccogliere la testimonianza della ragazza più amata da tutte le studentesse per il suo impegno in favore della parità di genere: Lorena. Lei mi confidò di aver subito maltrattamenti ed umiliazioni dal suo ex ragazzo: Ivan. Mi infervorai molto e non dubitai neppure per un istante della veridicità delle sue accuse, perché di lei avevo molta stima. Lorena, non se la sentiva di denunciarlo, mi pregò invece di scrivere un bell’articolo che contenesse considerazioni generali sugli atteggiamenti di alcuni maschi verso le ragazze e allusioni che portassero a pensare che Ivan fosse il vero destinatario di tali considerazioni. Ero piuttosto brava a scrivere già all’epoca e senza fare nessun nome riuscii a puntare l’indice proprio su Ivan. L’articolo, più le voci di corridoio, che in una scuola corrono alla velocità della luce fecero sì che in breve tempo Ivan diventasse il reietto dell’istituto. A nulla valsero le parole di autodifesa del ragazzo che aveva sempre dato a tutti un po’ l’idea di essere un tipo orgoglioso; intorno a lui, fino al termine dell’anno scolastico si creò il vuoto.
Non feci mai un errore più grande di quello perché qualche anno dopo venni a sapere da una ex compagna di scuola com’erano andate veramente le cose: «Ti ricordi Serrani?
« Certo! E come faccio a dimenticarmelo…» risposi in tono sarcastico.
« Beh, gli sono morti entrambi i genitori in un incidente d’auto…».
«Oh, caspita e tu come lo sai?»
«Mio fratello è suo amico, è andato al funerale…ma c’è un’altra cosa…Lorena aveva mentito su di lui, si era inventata tutto. Un anno dopo la fine della scuola, pentita, è andata da Ivan chiedendogli di perdonarla e di tornare insieme a lei. Testimone mio fratello.»
Mi ero sempre ripromessa di cercarlo per scusarmi, ma non ne avevo mai avuto il coraggio e in quel momento, era lì sdraiato sull’asfalto per colpa mia, mentre attendeva che i barellieri lo trasbordassero sulla lettiga. “Direi che ha tutte le ragioni per odiarmi.”, mi dicevo, ma avevo tutte le intenzioni di farmi perdonare e sbrigate le pratiche con i vigili, senza perdere tempo mi recai al pronto soccorso dell’ospedale dove lo aveva trasportato l’ambulanza. Lo vidi in un corridoio seduto su una sedia a rotelle, accanto a lui c’era un altro ragazzo, parlavano senza avermi visto; mi avvicinai piano ed ascoltai i loro discorsi: «Mi sono fratturato il perone, per fortuna una frattura composta, non dovrò essere operato, ma è comunque un guaio… avrò la gamba immobilizzata per quaranta giorni».
«Porca miseria Ivan, io per oggi posso aiutarti, ma per gli altri giorni è un casino. Sono nel periodo più difficile dell’anno per quanto riguarda il lavoro, non ho orari…è un casino.»
«Lo so, lo so, ti ringrazio per oggi… per i prossimi giorni mi farò venire un’idea. Proverò a sentire le educatrici di Serena. Invece, vedi se riesci a sapere qualcosa della mia moto, per favore.»
«La tua moto non ha subito gravi danni, così mi hanno detto. L’ho fatta portare nel mio box, domani chiamerò il meccanico o chi aggiusta le moto insomma…» esordii io timorosa intromettendomi nei loro discorsi. Ci furono dei lunghi attimi di imbarazzante silenzio, durante i quali lo sguardo tagliente di Ivan non mi lasciava scampo, mi venne una gran voglia di dileguarmi, ma il desiderio di rimediare in qualche modo al disastro che avevo combinato mi tenne lì.
«Ho sentito che hai dei problemi, potrei darti una mano in qualc…»
«No, grazie, hai già fatto abbastanza.» m’interruppe lapidario.
«Ivan, hai tutte le ragioni del mondo per avercela con me, ma a quanto ho capito ti ho causato dei guai seri, lascia che ti aiuti.»
« Ha bisogno di qualcuno che si occupi di sua sorella» s’intromise l’amico.
« Sta zitto Sem. Non impicciarti.» sbottò lui.
« Hai una sorellina piccola e ti serve una baby-sitter? Prenderò una pausa di lavoro fin quando sarà necessario e mi occuperò io di lei. Mi sento responsabile e vorrei…».
« Certo che sei responsabile, ma il tuo aiuto non m’interessa.»
« Ivan…» ammiccò l’amico, suggerendogli di considerare la mia offerta d’aiuto.
«E va bene. Sai che ti dico? L’aiuto me lo devi eccome. Ho bisogno di qualcuno che si occupi di mia sorella, solo che lei non è una bambina, ma una ventitreenne con un ritardo mentale. Necessita di essere accompagnata tutti i giorni e in diversi orari ai vari corsi che frequenta e necessita anche accudimento a casa. Non posso guidare e dovrai pensarci tu, così come dovrai pensare a preparale da mangiare fin tanto che non mi sentirò meglio. Oggi penserà Sem a lei, da domani toccherà a te. Tieni questo e il mio indirizzo di casa, presentati domani alle otto. E ora…se non ti dispiace, vorrei restare solo con il mio amico. ». Mi liquidò così, con un biglietto da visita tra le mani sul quale c’era scritto: Ivan Serrani, fisioterapista e il suo indirizzo.
Il mattino seguente, dopo i mille ripensamenti della notte precedente suonavo il campanello del suo appartamento. Mi aprì una ragazza alta e magra con il viso dolce e un sorriso smagliante: «Carolina! Finalmente! Non vedevo l’ora di conoscerti!» esclamò entusiasta, stritolandomi in un goffo abbraccio.
« Vieni, entra. Ivan è arrivata la tua ragazza!» gridò trascinandomi nel salone.
Ivan seduto sul divano con la gamba fratturata appoggiata su uno sgabello ci accolse un sorriso tirato, che non riuscì a nascondere la severità dello sguardo indirizzato a me.
« Che c’è non sei contento?» domandò delusa e preoccupata la sorella.
« Certo che sì…calmati però adesso», si affrettò a risponderle , rivolgendole un sorriso dolcissimo che mi spiazzò. Mi sembrava di avere davanti un’altra persona.
« Allora baciala. Tra fidanzati ci si bacia quando ci si incontra» disse spingendomi verso di lui. La ragazza mostrava un entusiasmo incontenibile mentre premeva con forza una mano sulla mia schiena: in un attimo mi ritrovai addosso ad Ivan. Il mio viso sbatté sulla sua guancia, quando lui, per evitare il contatto della mia bocca sulle sue labbra, si voltò di lato. Sentii pungermi la pelle al contatto della sua barba incolta di un paio di giorni, volevo scostarmi, ma con la mano premuta sulla schiena dalla sorella non riuscivo ad allontanarmi da lui.
«Ehi, allora vi baciate o no? Vi vergognate?» incalzava. Fu così che decisi di porre fine alla situazione sconveniente, togliendo entrambi dall’imbarazzo: lo presi per il mento, girai il suo viso dalla mia parte e gli diedi un bacio sulle labbra, lasciandolo basito. La sorella ci lasciò liberi di muoverci, sembrava l’avessimo accontentata, ma non era così:
«Imbroglioni. Quello non è un bacio da innamorati…» recriminò tristemente.
« Serena, i baci veri si danno in privato, lo sai. Perché non ci lasci un attimo soli eh? Va di là a preparare la tua roba.» propose Ivan con dolcezza strizzandole l’occhiolino. Lei acconsentì ritrovando il sorriso e lanciando ad entrambi sguardi maliziosi, si diresse verso la sua camera.
« In un’altra vita devo aver fatto qualcosa di tremendo da scontare in questa… » sospirò sparita la sorella, afferrando le stampelle appoggiate al divano e mettendosi in piedi.
« Senti, le cose stanno così: mia sorella ha il cervello di una bambina di sei anni. Lei crede che tu sia la mia ragazza perché un giorno guardando la tivvù sei apparsa in un notiziario ed io vedendoti, senza volerlo, ho tirato un sospiro. Lei mi ha chiesto se ti conoscevo, io le ho risposto in tono sarcastico che eri la mia ragazza. Ed ho sbagliato alla grande perché lei non capisce il sarcasmo. In seguito ho provato a dirle che non era vero, ma non c’è stato modo di farla smettere di ricamare sopra a quell’affermazione. Non so esattamente che cosa si fosse messa in testa, ma fantasticava di continuo su noi due: diceva “il lupo solitario ha trovato finalmente la sua compagna”. Poi ad un certo punto ha smesso, voleva guardare sempre i tuoi servizi televisivi, ma non toccava più l’argomento. Ieri ho agito d’impulso proponendoti di venire qui, se avessi immaginato tutto questo però, non lo avrei fatto di sicuro. Ecco è tutto. Quindi, ti chiedo solo questo: dammi tempo un paio di giorni per trovare un’altra soluzione. Nel frattempo, ti prego di non far caso alle sue… ecco alle sue stranezze.» spiegò reprimendo a stento il suo orgoglio.
«Va bene, ho capito, tranquillo…» convenni provando uno strano moto di tenerezza per lui. Non so se fosse il mio senso di colpa a farsi sentire, ma ero molto colpita da lui, dalla sua premura per la sorella e perfino dal suo orgoglio.
«Okay, bene…Sul tavolo c’è un foglietto con le istruzioni per oggi, ci vediamo tra un paio d’ore.» disse poi, distogliendo lo sguardo.
Portai Serena all’incontro con la neuropsichiatra, poi ci fermammo a comprare la lista di cose che Ivan aveva segnato sul foglio e tornammo a casa. Serena era entusiasta, non faceva che abbracciarmi, baciarmi e dirmi quanto fossi bella. Una volta a casa travolse il fratello con un abbraccio facendomi cenno di unirmi a loro due. Tentennai nell’attesa di un cenno d’assenso da parte di Ivan che non tardò ad arrivare, così per un attimo finii di nuovo tra le sue braccia. Passai quattro giorni come catapultata in un’altra dimensione. Una dimensione familiare, accogliente, vivacizzata dalle intemperanze fanciullesche di Serena e mitigata dal fare paterno di Ivan. Tornavo a casa scombussolata, ma stranamente appagata. Una sera guardandomi allo specchio, mentre stendevo della crema lenitiva su una guancia arrossata, tornai con il pensiero ad Ivan, alla sua barba ispida, al suo carattere orgoglioso, al suo sguardo intenso e al sorriso disarmante che destinava alla sorella. Già dopo il primo giorno avevo iniziato a non disdegnare i contatti e le effusioni tra noi per compiacere Serena e realizzai incredula di essermi presa una cotta per lui.
Il giorno dopo a casa di Ivan, stavo per mettermi ai fornelli e mi ritrovai sola con lui.
Capitava raramente e sempre per brevi momenti durante i quali non c’era tempo di dire nulla; ma dopo la lezione in palestra, Serena aveva bisogno di una doccia e rimanemmo noi due soli.
«Lascia stare, oggi ci penso io. Ce la faccio, se vuoi andare, va pure.» esordì in uno strano tono. Avevo l’impressione che l’avesse detto sperando che io decidessi di rimanere lo stesso. Approfittai del suo essere ben disposto nei miei confronti per fargli le scuse per quella che consideravo l’unica vera macchia sul mio curriculum di giornalista: l’articolo del liceo.
«È acqua passata ormai… ne hai fatta di strada da allora… ora sei una giornalista vera.» disse fissandomi mentre si avvicinava al bancone della cucina.
A me però prese la frenesia di tornare sull’argomento liceo, non so perché, forse volevo sapesse che ero sinceramente pentita: «Mi dispiace tantissimo, non avrei dovuto darti contro senza approfondire, di sicuro ce l’avrai con tutte le donne ora.» lo commiserai.
Lui cambiò subito espressione: «Giornalista esperta e fine psicologa anche, vedo.» commentò sarcastico. Abbassai la testa rammaricata, non volevo che andasse a finire così.
«Okay, scusa, sono stato pesante. Per farmi perdonare, ti invito a pranzo. Cucinerò io, così finalmente mangeremo in modo decente. Ti hanno mai detto che cucini malissimo?». disse tra il serio e il faceto.
«Oh, ma a Serena piace come cucino!» ribattei con un sorriso incerto, non volevo rovinare quel momento di tregua in nessun modo.
«Perché sei il suo idolo. Lei ha una cotta per te, direbbe qualsiasi cosa per compiacerti.» replicò con un sorriso, mentre i suoi occhi indugiavano più del dovuto sul mio viso. Fu allora che lo baciai. Gli gettai le braccia al collo e lo baciai. Lui lasciò cadere una delle stampelle sul pavimento e mi strinse a sé.
«Che carini!» esclamò Serena entrando in cucina. «Bravi. Questo sì che è un bacio vero!» continuò, mentre noi due, imbarazzati cercavamo di ricomporci.
Quel giorno il bacio di commiato tra noi due assunse tutta un’altra valenza, prima di andarmene Ivan mi chiese perfino: «Ehm…più tardi posso chiamarti?».
Scesi le scale del palazzo con le ali ai piedi dalla gioia, ma appena fuori del portone mi sentii chiamare: «Carolina! Che ci fai qui?». Era la mia amica Vanessa. «Oh, è una storia lunga e tu che ci fai qui?» domandai.
«Ho un appuntamento dal mio fisioterapista»
«Vai da Ivan?»
«Sì, perché? Non dirmi che lo conosci»
«Beh, sì, esco da casa sua e incrocio le dita, forse sta per nascere qualcosa tra noi»
«Oh mio Dio! Non ci posso credere! Ahahah! È lui!»
«Lui cosa? Vanessa ma che hai sei impazzita? Smettila di ridere.»
«L’appuntamento al buio a cui hai dato buca l’altra sera era con lui. Avevo invitato lui e sua sorella a cena per fartelo conoscere perché è un ragazzo speciale. Oh, santo cielo, non c’è niente da fare: quando è destino è destino.».
Sì, proprio così: quando è destino è destino.
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