SETTE A IN TRE
- 17 mar
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Tre persone entrarono nel ristorante giapponese.
Le loro età erano intorno ai 50, 40 e 30 anni.
Si sedettero e aspettarono.
Osservando il locale videro che era sorprendentemente vuoto.
I loro nomi erano Adam, Anna e Amanda, sette A in tre.
Tutti e tre avrebbero preferito ordinare con un menu vero, invece dovettero sottostare alla regola del codice QR.
ADAM
Adam amava camminare.
C’erano campi sterminati che circondavano la sua dimora e lui li conosceva tutti.
Solo in quei momenti ritrovava sé stesso, scevro dalle incombenze quotidiane, dal lavoro, dalla famiglia, dalle responsabilità.
La filosofia era sempre stata la sua passione, per questo la camminata cominciava sempre passando dal recinto della capra dei vicini, fissava l’animale negli occhi, gli dava qualche cracker scaduto e pronunciava sempre le stesse parole, in un gioco riservato a loro due.
“Noi due siamo amici, vero Sofia?” l’animale non rispondeva, ma i suoi occhi avevano una profondità che comunicavano verità incomprensibili o almeno lui sentiva che fosse così.
Sofia era realmente il nome della capra, non solo un gioco.
Poi riprendeva il suo cammino e si dirigeva verso il frassino, il suo albero, il luogo della quiete.
Quando arrivava, appoggiava il palmo della mano sulla corteccia e placava i suoi demoni interiori.
Gli piaceva guardare in alto, riusciva anche di giorno a sapere dove si nascondevano le stelle con la luce.
Tutti quelli che avevano incrociato il suo cammino, riconoscevano in Adam, una vena di coraggio, un uomo che aveva basato la sua vita sulle spinte del suo cuore. Ciò che Spinoza chiamava “conatus esendi”, desiderio di esistere e Bergson “élan vital”, slancio vitale, erano nell’uomo evidenti per tutti quelli che conoscevano la sua storia.
Nel corso dell’esistenza aveva cambiato diversi lavori, al massimo resisteva 10 anni a fare la stessa cosa, poi si buttava sempre in una nuova avventura, stanco del ripetersi delle ore sempre nello stesso modo. Il ticchettio del tempo lo infastidiva.
La virtù per eccellenza, così la chiamavano gli antichi romani, era appunto il coraggio, ma ai tempi moderni veniva considerato quasi un orpello in un uomo, a giustificazione dei tempi pavidi in cui vivevano. Ma spesso è difficile conciliare questo impeto verso la vita con la quotidianità, anzi è quasi d’ingombro.
Come Amanda anche Adam stravedeva per sua figlia, l’aveva avuta sopra i quarant’anni, fortemente voluta. Essere padre era una sua tensione naturale, aveva sempre avuto un istinto di protezione verso chi gli stava vicino, chi amava e non tollerava ci fossero delle ingiustizie o prevaricazioni.
Non era incline a dare consigli, lo riteneva sbagliato, ma sapeva far sentire la sua presenza anche nell’assenza.
Ogni tanto, raramente, si incontrava con Marco, il suo amico fin dalla prima elementare, un lusso di cui andava fiero, ma la vita gli aveva regalato tanti rapporti sinceri e importanti e lui li aveva fortemente voluti e coltivati.
Nessun rapporto cresce da solo, se non lo innaffi con il tuo sentire, con la tua onestà, con il tuo sguardo.
Questa era una delle poche certezze che aveva.
I tiger roll con tempura di gamberi e avocado erano il motivo per cui Adam amava frequentava quel ristorante giapponese, prima ci veniva col fratello, ora invece da solo.
ANNA
Anna aveva due uomini.
Erano anni che si divideva fra loro due, il primo era a conoscenza del secondo (anche se non c’era un primo e un secondo) mentre l’altro lo sospettava, ma non aveva l’energia e la voglia necessarie per saperlo veramente.
Per lei questa era diventata la consuetudine, una routine, strana per molti, ma non per lei, anche perché amava ripetersi: “Qual è la normalità? Una vita senza sogni, grigia e opaca come quella di sua sorella, sposata con figli e costantemente depressa?”
Oppure “non esiste giusto o sbagliato, esiste solo la felicità e io ho deciso di andarmela a prendere”.
Ragionamenti che non facevano una piega, ma che la tenevano da troppo tempo bloccata in un limbo, di cui faceva fatica ad accorgersene.
Non capiva che quei giorni, quegli anni sospesa su un filo, tessuto dalla sua paura, la vita non glieli avrebbe restituiti.
Nella sua professione di fotografa amava ritrarre animali, qualsiasi tipo di bestia, ma soprattutto gatti. I suoi.
Ne aveva otto, che vivevano con lei, la madre e la nonna, la sua famiglia era sempre stata di sole donne, anche quando la sorella maggiore viveva con loro.
Insieme ai suoi amici felini, sentiva di star bene, ancora di più che con i suoi due uomini.
Loro erano in due, ma avrebbero potuto essere anche tre. Da ognuno prendeva ciò che le serviva, senza pensare alle conseguenze, soprattutto senza mai pensare veramente a sé stessa. Spesso si sentiva vuota, un guscio da riempire, un’anima incompleta e per questo si era ficcata in quella situazione assurda.
Anche Anna come Adam amava camminare, si faceva passeggiate lunghissime, non esisteva distanza che non fosse in grado di colmare, in quelle camminate interminabili ascoltava le sue playlist preferite, sempre musica francese.
Amava viaggiare, visitare il mondo, farsi cullare da culture distanti da lei, la sua curiosità era il suo grande tesoro da proteggere e lei lo sapeva.
Ma nessun posto che aveva visitato lo aveva sentito vicino al suo concetto di casa, si sentiva un’esule, come separata alla nascita dal suo nido.
La sera passava ore ad accarezzare i suoi amati gatti, quelle fusa erano come un mantra che la riportava alla sua vera natura.
A quella bambina che aveva nascosto dentro e che aveva sempre protetto dal mondo e dagli altri.
Era lei su un’altalena in un giardino a lei caro con suo padre che la spingeva, guardandola con occhi colmi d’affetto.
Osservava dalla finestra le luci che provenivano dalla notte, lampioni, fari delle macchine e la luna.
Per lei non c’erano distinzioni. Solo luce.
Fu solo un giorno che iniziò a capire veramente cosa fosse la luna.
Anna ordinò del sashimi e alghe wakame, in questo posto avevano una marcia in più, tutto molto light, tutto perfetto per la sua forma longilinea e invidiabile.
AMANDA
Amanda viveva per suo figlio.
Dalla nascita di Ettore aveva deciso di smettere di vivere, la sua unica vita era quella del figlio.
Era stata una brillante chef, la cucina era sempre stata la sua passione.
“Locanda Amanda” si era aggiudicata due stelle Michelin, un traguardo prestigioso.
Se solo avesse voluto, sarebbe potuta entrare nel “gotha delle tre stelle”, ma non capitò, non lo volle.
Poi la vita decise dell’altro per lei.
Quando incontrò Sebastian capi’ subito che non sarebbe mai stato quell’amore che sognava da bambina, ma lo sposò.
Vide in lui quella possibilità di stabilità che aveva sempre cercato, sapeva che l’uomo le avrebbe garantito un futuro vero, concreto, fu lui ad investire nel progetto della locanda, che si rivelò vincente per entrambi.
Ma la conquistò con un inganno.
Le disse di amarla e questo si rivelò falso, nonostante vissero insieme per il resto della vita. Ci fu un periodo che anche lei, come Anna, si divise tra due uomini, il marito era a conoscenza del suo amante, ma durò meno di un anno.
Fu un anno meraviglioso quello passato con Michael, con lui provò emozioni che da tempo non sentiva più, ma l’uomo non sopportava quell’abitudine che la donna aveva.
Ogni settimana, tutti i lunedi si doveva fare in vena una dose di eroina, lo faceva in ambulatorio, sotto controllo medico.
Senza quella quantità di veleno, la vita gli sembrava senza senso.
E questo continuò anche con la nascita del figlio, provò per un periodo a starne senza, ma poi tornò velocemente alle vecchie abitudini.
Era una giovane ragazza quando morì suo padre, in quel periodo aveva iniziato a farsi e non aveva più smesso, prima da sola con loschi spacciatori che avevano abusato di lei, poi negli ambulatori dedicati.
Non aveva disdegnato nessun tipo di droga, ma ora era solo con l’eroina, la regina degli sballi, che sparata in vena le dava dei momenti di tranquillità, in quel caos che era la sua vita.
Riso alla cantonese e zuppa di miso erano due classici della cucina cinese, ma anche in quel ristorante li facevano.
Lei, più di altri, aveva gli strumenti per giudicare la qualità di quel posto, di quel cibo e sapeva che luoghi come quello erano rari nella sua città.
THE LONELIEST
Tutti e tre guardavano solo il cibo che avevano davanti.
Tiger roll, sashimi. alghe wakame, riso alla cantonese e zuppa di miso.
I tre tavoli erano uno accanto all’altro.
Il caso li aveva portati lì quel giorno.
Queste tre creature erano compatibili al 100% l’una con l’altra, ma non potevano saperlo.
Dalle casse del ristorante iniziò ad uscire una ballad, “The loneliest” dei Måneskin, l’ultimo brano di successo della band prima della loro separazione, in parte fu anche premonitrice del loro distacco.
You’ll be the saddest part of me
A part of me that will never be mine
it's obvious
Tonight is gonna be the loneliest
You're still the oxygen I breathe
I see your face when I close my eyes
It's torturous
Tonight is gonna be the loneliest
Ognuno di loro tre era in realtà un solitario, al di là degli uomini, dei figli, delle amicizie che avevano.
Avevano passato le loro vite a sentirsi soli, alieni in un pianeta che non sentivano proprio.
Per anni si erano illusi di possedere una parte di chi gli stava vicino, o che loro fossero parte di essi, ma ora avevano capito che non era possibile.
Loro erano solo loro, e basta.
E così, in quella notte solitaria.
In un istante, accadde.
Nello stesso momento.
Tutti e tre sbatterono le palpebre.
E poi.
Alzarono lo sguardo dal piatto.
Complimenti vivissimi, hai un'immaginazione sorprendente e un modo straordinaio di trasformarla in parole!