
Il desiderio di maternità era un canto ininterrotto nel cuore di Atsuko Shibari.
Sognava di stringere tra le braccia la completezza, di donare e ricevere amore infinito, fin dai giorni del suo incontro con Hiroshi, l’uomo della sua vita.
E la vita, con la sua delicata ironia, le offrì un dono inatteso: la gravidanza.
Ma il destino, tessitore implacabile di fili invisibili, aveva in serbo una prova ben più ardua.
Il marito Hiroshi si ammalò e la sua malattia glielo portò via in meno di due mesi, lasciando un vuoto incolmabile nel cuore di Atsuko.
Eppure, nel profondo del suo dolore, una nuova vita pulsava, un'eco tenue di speranza in mezzo alla tempesta.
La notte prima del sonno volgeva gli occhi alle stelle, quel cielo dove ora dimorava l’amato, stava per mandarle un dono.
Tre mesi dopo il tragico fatto, arrivò la piccola Mizuki.
Crescere una bambina da sola nel Giappone degli anni cinquanta non era cosa da tutti.
Le casate principali non vedevano di buon occhio le donne single, non erano disposti a darle protezione e tantomeno ad aiutarle a vivere, ma Atsuko non se la sentì di sostituire il marito con un altro uomo e così fece una cosa sconveniente per quei tempi: restò sola.
Sua figlia divenne la sua priorità, la sua unica ragione di vita.
La donna si mise a fare le cose più disparate e le faceva portandosi dietro la figlia e adagiandola in un fagotto artigianale che essa stessa aveva costruito.
Il tempo, come un fiume lento, scivolò via, portando con sé stagioni e ricordi. Ma un giorno, quando la piccola aveva quattro primavere, il cielo si squarciò in un baleno, e un temporale furioso si abbatté sulla loro città. Accadde il 7 giugno, una data che si sarebbe incisa indelebilmente nelle loro memorie, come l'inizio di una era che avrebbe segnato il loro destino.
La bambina in mezzo al frastuono di una tempesta assordante cadde a terra e iniziò a tremare con tutto il corpo, la donna nel vedere la figlia in quelle condizioni e senza la possibilità di nessun aiuto, fece la prima cosa che le venne in mente.
Per fermare il tremore decise di legarla.
Sotto la forza dei lacci della madre, la crisi della piccola Mizuki, si placò e diede pace ad Atsuko, un sorriso timido fiorì sulle sue labbra, un raggio di sole dopo la bufera per ringraziare il gesto della madre.
Le corde erano spesse e forti, ma non le provocavano dolore. Solo una sensazione nuova, mai sentita prima.
Non era una malattia a tormentare la bambina, ma piuttosto un'eco della paura e della solitudine che avevano risuonato nel suo cuore durante il terribile temporale. Il suo corpo, ancora fragile, aveva reagito alla tempesta esterna con una tempesta interiore, cercando di difendersi da un mondo che sembrava ostile.
Dopo qualche anno, memore del fatto di quel 7 giugno, la bambina, ora di otto anni, chiese alla madre di legarla come quel giorno.
La donna acconsentì, Mizuki era una brava bambina si impegnava in tutto e se le chiedeva questo, doveva essere giusto.
La cosa continuò a ripetersi negli anni successivi, tutti gli anni il 7 Giugno, la bambina, ora ragazza andava da lei e chiedeva alla madre “Mamma, oggi mi leghi?”
È così prosegui fino all’età dei 20 anni.
Cosa provava Mizuki in quella condizione strana, anomala per una creatura dolce come lei? Fu proprio nel suo ventesimo compleanno che capi’ per la prima volta: provava piacere.
ANNO 2030, città di Kyoto
Nozomi amava andare a trovare sua nonna Mizuki.
Era il suo idolo, una donna saggia, anticonvenzionale , libera ed era stata la capostipite della sua famiglia, la prima a far nascere quella tradizione che poi divenne la loro professione al punto che la chiamarono con il loro cognome: Shibari.
Oramai era praticato anche da persone di altre caste, la leggenda che si era diffusa, aveva invaso il Giappone.
In alcuni casi aveva preso una connotazione erotica, un’amante legava l’altro che restava in suo dominio, spesso si decideva insieme un tempo che poteva essere due, tre, fino a diciotto ore, ma il significato era più ampio e complesso di un semplice gioco sessuale.
Dare in mano se stessi ad un altro essere umano, in una società malata come quella contemporanea poteva essere un grande rischio, ma Nozomi capiva in profondità l’animo umano e i suoi clienti erano sempre scelti con cura.
In quei momenti, con delicata attenzione. lei viveva per loro, le persone che aveva accanto.
Avere una intesa profonda, vera, con altri esseri umani significava per lei l’essenza della vita e poco importava se sarebbe durato per un tempo così ridotto, lei stessa vedeva la sua presenza sulla terra in modo insignificante all’interno dei giochi dell’universo.
Anche a lei piaceva essere legata, sua nonna prima e sua madre poi, le avevano spiegato nel dettaglio le regole di questo “controllo”, ma spesso, diciamo quasi sempre, chi sceglieva lei, voleva essere legato e non legarla.
Lei poteva essere la preda o il predatore, metteva solo dei limiti ai modi in cui potevano legarla: quelle persone non avevano l’esperienza necessaria per fare lacci complessi, lei sì.
Si sbizzarriva con corde e nodi a creare opere d’arte, ad intrecciare linee e curve che formavano opere uniche dinanzi al lei. Anche gli uomini o le donne che sceglievano la durata più lunga, quindi le diciotto ore, non avevano mai voluto interrompere prima.
La donna, una volta legato il partner, era un vulcano di idee, leggeva loro brani o poesie, dipingeva i loro corpi di color oro, li sfamava con cibi pregiati che non avevano mai assaggiato.
Portava con sé le sue musiche preferite, tutte diverse l’una dall’altra e capiva dalle contrazioni di quei corpi cosa arrivava in profondità a loro e cosa no.
Niente la tratteneva, niente le era proibito a lei come a loro.
La libertà è una chimera che inseguiamo in modo spasmodico, fino a quando ci rendiamo conto che non esiste se non nell’altro, in occhi che ci guardano affamati di vita, di noi.
Sguardi lievi da cui capisci che l’unica felicità possibile è vivere quel momento, stare accanto a qualcuno, anche a degli sconosciuti se c’era l’intesa giusta.
Capitava ogni tanto che qualcuno le sussurrasse, stremato dal turbinio di emozioni, “mi fai dormire per un po’ adesso?”
Lei acconsentiva sempre, vedere un corpo inerme, addormentato al suo fianco era ancora più privo di volontà e prendersene cura con premure e attenzioni degne di una madre, la riempivano di gioia.
Ogni tanto accadeva anche dell’altro, ma era un qualcosa in più, non il fulcro di quella esperienza unica che la donna era in grado di creare.
Quando i patti erano chiari e netti, quel gioco di potere diventava salvifico, eccitante, necessario. Ozoni diceva queste parole: “la mia vita o la tua nelle prossime ore sarà sospesa, non sarà più mia o tua, sarà dell’altro”.
La vecchia Mizuki aveva capito per prima in quel 7 giugno che ognuno di noi ha un controllo molto parziale della propria esistenza. Che un tuono, che la natura sono più potenti dell’animo umano e che noi per tutta la nostra esistenza dipendiamo involontariamente da genitori, maestri di scuola, colleghi, medici, avvocati, agenti delle tasse, ladri e maramaglia simile.
Così, tanto valeva appartenere volontariamente, anche per poche ore, ad un altro essere umano, quello per lei e per loro era l’unica via possibile per parlare d’amore e volgere gli occhi all’infinito.
Molto bene scritto come sempre .
Non ho mai capito il bello del gioco della coercizione ma le ultime righe ribaltano in modo inaspettato e molto spirituale il gioco