
Osvaldo si era fatto un regalo, agognato da tanto, troppo tempo. Non si trattava di un maglioncino al novantanove per cento di cachemire e neanche di una cravatta di Dior che Sotheby’s aveva battuto a 111.000 euro, era decisamente altro!
Si era regalato un corso d’inglese!
Alla veneranda età di ottant’anni aveva deciso di rimettersi in gioco e riprendere in mano le redini della sua vita.
Con l’inglese si sarebbero riaperte nuove opportunità lavorative, poi come si usava dire: “Gli ottanta sono i nuovi quaranta!” e a quarant’anni tutto poteva ancora accadere.
L’apprendimento di quello strano modo di parlare aveva avuto diversi cicli nella sua vita.
All’asilo e alle elementari, e poi anche alle medie, era il primo della classe anche e soprattutto per due fattori: nessuno in quegli anni mandava i figli ad imparare l’inglese all’asilo, ma i suoi genitori, lungimiranti, lo fecero, e poi ad undici anni lo spedirono col suo migliore amico Marco in Inghilterra a perfezionare la lingua per tre settimane, un’esperienza per lui indimenticabile.
L’insieme di quelle due cose lo avevano reso più solido e sicuro di sé, nell’uso di tutti quei termini che aveva imparato a masticare da bambino fino all’adolescenza.
Dalle superiori in poi invece partì il disinnamoramento, questo per colpa di una insegnante, che non è che fosse male come docente, ma era così bella e affascinante che quando spiegava il genitivo sassone, l'unica cosa che i suoi studenti riuscivano a coniugare erano i loro ormoni.
Nel corso della sua vita aveva avuto diverse occasioni in cui era stato costretto a parlare e interloquire in quella lingua e se l’era sempre cavata. Anche se a volte ciò che dicevano “gli altri”, i malefici madrelingua, gli arrivava al 60,80 per cento, ma con un impeto da spirito di sopravvivenza riusciva sempre ad identificare il senso di ciò che dicevano.
Ci furono due situazioni memorabili dove sfoggiò le sue capacità: l’incontro con il direttore del MoMa di New York, Glenn D. Lowry, una istituzione di quel tempio dell’arte e quando andò a San Diego a presentare ad un pubblico misto di ispanici e yankees la sua ultima opera, una installazione dal titolo “The pen is on the table”.
Il divertimento era sempre stato alla base del lavoro di Osvaldo, a volte con i suoi figli diceva frasi strampalate: “Vado ad espandere acqua!”, ad esempio, era il suo balzano modo di dire che doveva andare in bagno a fare pipì. Oppure si divertiva ad usare qualche rima, quando aveva fame, diceva: “Devo riempire la pancia, mi sembra di aver visto in giro un’arancia”. O quando era un po’ stanco diceva: 'Vado a fare un pisolino, altrimenti mi sciolgo come un budino!'"
Tutte stramberie assurde, ma totalmente coerenti con la sua personalità.
Sua moglie, la pianista giapponese Tootsie Harigawa, lo assecondava in tutto, anche lei era un’artista, avendo dedicato tutta la sua vita ai tasti bianconeri del suo Steinway, ma lui aveva raggiunto una fama di livello internazionale.
La genialità delle opere di Osvaldo Van Blert erano uniche e “The pen is on the table” ne fu la massima dimostrazione.
La genesi delle sue opere aveva, più o meno, sempre la stessa dinamica: prima una fase di ricerca, poi arrivava la parte creativa in cui doveva trovare il modo di sviluppare la forma dell’idea, poi aggiungeva sempre quello che lui chiamava l’elemento estraneo, spesso dissacratorio o ironico e alla fine assemblava tutto: questo era il suo processo creativo.
C’è da dire che “The pen is on the table” era il titolo del suo libro d’inglese delle scuole medie, da lì aveva deciso di partire.
Come un vero collezionista, scovò il libro su eBay, lo pagò 750 dollari, una cifra che avrebbe fatto impallidire anche un collezionista di macchinine d'epoca. Ma per lui, quel libro era un tesoro inestimabile, la chiave per sbloccare il suo genio.
Iniziò a studiarlo e forse fu proprio quel giorno che nacque il seme di quel regalo che si fece per gli ottant’anni!
Quel libro era così noioso che avrebbe fatto venire sonno anche ad un centometrista sui posti di blocco prima dello start. Ogni capitolo era un mattone di grammatica, e le frasi erano così banali che facevano rimpiangere le tabelline. “Museums are more boring than restaurants”??? Ma per favore! Osvaldo avrebbe preferito passare la serata in un museo di calzini spaiati, piuttosto che in un ristorante di broccoli bolliti.
Così si concentrò sull’opera che doveva creare.
La prima idea che gli venne fu quella di creare un libro di dimensioni mastodontiche, arrivò alla conclusione che doveva misurare otto metri di altezza per 6 metri di larghezza. Come spesso si diceva, in altri contesti, le dimensioni contano, e anche nell’arte bisognava tener presente questo concetto. Ma lo spirito anarchico del buon Osvaldo era decisamente poco interessato alle ragioni di mercato. Sapeva benissimo che non tutte le gallerie o musei potevano permettersi quelle misure.
“Se hai qualcosa di decisamente grosso, poi devi trovare qualcosa di adatto per farlo entrare”, pensava sorridendo, a volte gli altri contesti aiutano nella nascita delle opere d’arte, pure il buon Warhol, lo diceva spesso.
Gli spettatori nel concept della sua installazione diventavano parte di essa.
Chiunque volesse vedere l'opera, doveva mettersi sotto il libro gigante, come una formica sotto un grattacielo, una videocamera riprendeva la sua faccia, e un monitor la mostrava all’interno di un capitolo, mentre diceva 'The pen is on the table'. Era un'esperienza surreale, come essere risucchiati in un libro d’inglese impazzito. Un vero delirio.
Questa opera così pacchiana e buffa, fece il giro del mondo e la sua arte divenne così pop che fu invitato in diversi talk televisivi, il modo migliore per alzare le sue quotazioni di mercato.
Così, dopo diversi anni, circa mezzo secolo, si ritrovò in questa scuola di Pavia a riprendere con le lezioni d’inglese.
Osvaldo, l'artista che aveva fatto il giro del mondo, ora era seduto in un'aula scolastica, circondato da adulti annoiati e ragazzini irrequieti. Si sentiva un po' come un leone in gabbia. Ma non si perse d'animo. Prese il nuovo libro di testo, lo aprì e disse: “Ok, verbi irregolari, preparatevi. Osvaldo is back!”
Da subito sottovalutò l’impegno, pensando che fosse un semplice momento di conversazione, invece gli spunti che emergevano da ogni lezione lo facevano sentire come se per tutta la vita non avesse mai incontrato veramente quella lingua.
Dopo sei mesi, arrivò il momento dell’esame, lo fece insieme ad altre due partecipanti, Francesca e Vanessa, le uniche due con cui scambiò mai una parola, due persone in gamba pensava.
L’insegnante si chiamava Leo, si sentì fortunato ad avere lei per quell’esame, era decisamente la migliore tra tutte le insegnanti di quella scuola.
Prima interrogarono Vanessa che brillantemente rispose a tutto incespicando un po’ sui “quantifiers”, ma poca roba, poi toccò a Francesca anche lei andò brillantemente, aveva una pronuncia non sempre perfetta, ma era molto comprensibile in ciò che diceva.
Poi toccò a lui.
Nel momento in cui gli fecero la prima domanda, il suo corpo, la sua mente reagirono in modo strano, inaspettato.
Sapeva benissimo come rispondere all’uso del “going to” nella formulazione del futuro inteso come “future intentions” ma quelle parole gli arrivarono in modo stranissimo come se fossero pronunciate in una lingua aliena. O in cinese.
Forse fu l’emozione del momento o il fatto di ritrovarsi sotto esame dopo circa sessant’anni, ma cadde di lato per terra rovinosamente con un tonfo degno di un elefante che inciampa. La scrivania di vetro si trasformò in un caleidoscopio distorto, e in quel momento capì che gli ottanta erano più vicini ai cento che ai quaranta!
Non bisogna mai dare troppo credito ai modi di dire del momento. MAI!
Il suo volto riverso per terra guardava di lato quella scrivania e l’ultima cosa che vide fu proprio una penna bic nera, adagiata come dormiente, su quel tavolo che aveva davanti. Quando Leo si avvicinò per chiedergli cosa sentisse, come stesse, lui fece un ultimo sospirò e pronunciò farfugliando le sue ultime parole: “E EN IS ON E EBOL”.
“Non capisco, non capisco! I don’t understand!!!” disse l’insegnante, per lei quelle parole rimasero un mistero.
L’ambulanza arrivò dopo circa 18 minuti, ma non ci fu nulla da fare, il corpo fu portato via con una rapidità impressionante, visto che alle 19 c’era una nuova lezione ed erano tutti in attesa di cominciare.
Mentre gli addetti alla pulizia corpi portarono via il cadavere di Osvaldo, Leo pensò che si era dimenticata di comprare il cibo per Penny e Ugo i suoi due gatti.
Così lo segnò sul promemoria del cellulare.
C’era un Carrefour, abbastanza vicino, che faceva orario continuato.
Le mie insegnanti di inglese non hanno mai stimolato i miei ormoni non hanno neppure attivato alcuna sinapsi linguistica.
Gran finale triste ma inaspettato