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UN'ALTRA STANZA DEI GIOCHI

Aggiornamento: 9 set


foto e testo di Max Chianese

 

Maddalena continuava a fissare le foto della festa, i visi sorridenti di quei bimbi le portavano una sensazione mista di dolore e di gioia.

 

Erano già passati tre anni da quando aveva iniziato ad andare in quel posto. Tutti i sabati.

Il pensiero comune ci porta a pensare che davanti alle tragedie, alle difficoltà, ai drammi, gli esseri umani si fortifichino, diventino un muro, un’armata invincibile unita nel contrastare qualsiasi nemico ed ostacolo che ci si presenti davanti.

Ma questa è mera idealizzazione o sopravvalutazione di ciò che purtroppo siamo.

La realtà è che noi, tutti noi, salvo rarissime eccezioni, rispecchiamo la società e il mondo che abbiamo creato e fortemente voluto: un castello di cristallo, pronto ad infrangersi alla prima folata di vento.

In tre anni Mad, così la chiamavano tutti, aveva assistito a diversi crolli da parte di quelle persone, di quei genitori.

E lei non era arrivata minimamente preparata a quei momenti.

Non si poteva lontanamente neanche immaginare cosa avrebbe vissuto.

La sua era stata una famiglia normale, lo era stata fino ad un certo punto, poi tutto si era disgregato con la morte della madre, il padre era andato fuori controllo e il fratello Marcello se n’era andato.

E così si era ritrovata orfana in quel deserto sconosciuto chiamato vita, fino a quando aveva letto quell’annuncio, lì aveva ricostruito una sorta di microcosmo che poteva assimilare a quello che ormai era il lontano concetto di famiglia.

Marta, Emma, Lory, Daniela, Roberta e Maria dividevano con lei quelle giornate, tutte loro ricoprivano quel vuoto in cui ora si trovava.

L’annuncio era su un volantino che le era accidentalmente finito tra le mani:

ABIO - Associazione per il Bambino In Ospedale

cerca volontari!

C’era un numero di telefono, aveva chiamato e poi era andata al colloquio. Le avevano prospettato un corso di formazione di due mesi, a cui seguiva l’inserimento in una struttura ospedaliera come volontaria. E così aveva fatto.

Tutte le amicizie, che anche involontariamente si erano formate durante il corso, si erano presto dissolte per poi crearsi in modo più tenace dentro l’ospedale, con altre persone.

Le avevano proposto più soluzioni, facendole presente che una in particolare era emotivamente più pesante delle altre: l’ospedale Besta di Milano, che oltre ai suoi degenti si occupava anche dei bambini del vicino Istituto dei Tumori.

Aveva scelto quel posto, il più doloroso.

Il legame che si era stretto con le altre donne aveva un qualcosa di speciale ma rivelatorio: solo nelle situazioni di dolore, di sofferenza, si formano legami veri, indissolubili e solo le ore di volo passate insieme rafforzano quei legami.

Marta ed Emma erano le volontarie con cui andava più d’accordo, non fu un caso che sarebbero state parte della sua vita, anche fuori da lì.

E come accadeva con lei, sentiva che quel periodo, quei giorni, avrebbero cambiato il corso delle loro esistenze.

Il concetto di morte è vigile e presente in ciascuno di noi, ma ad intermittenza, ci viene vomitato addosso quando va a colpire delle creature a noi vicine, nonni, genitori, cani, gatti, conigli, pappagalli, amici, parenti vari e poi torna a sopirsi in un letargo apparente.

Quel luogo, quell’ospedale, ci schiaffava davanti, con tutta la violenza di cui la natura è capace, la nostra mortalità in ogni momento, la brevità del nostro passaggio su questo balordo pianeta.

Spesso ci sono giornate che ci scappano di mano, iniziano con le migliori intenzioni, con due, tre, quindici cose da fare, poi se siamo fortunati ne realizziamo una o due di quelle cose e ci ritroviamo a pensare alla esiguità delle ore che avevamo, al tempo sprecato o volato via.

Nello stesso modo, ad un certo punto della nostra vita, ci ritroviamo davanti ad uno specchio inorriditi di ciò che stiamo vedendo.

Chi ho davanti? Sono certo di non essere io quella “roba” che sto guardando! E allora chi è?

Ci capacitiamo rapidamente che qualcuno ci ha sottratto le nostre esistenze, fino al punto di capire che quel “qualcuno” è ciò che vediamo riflesso, noi stessi siamo i killer delle nostre esistenze, con tutte le ore buttate in persone e situazioni del tutto inutili.

Davanti a quei bambini tutto invece sembrava più chiaro.

Le malattie rare sono, per i più, un concetto astratto o al massimo se siamo sfortunati e molto sfortunati, arriviamo a conoscerne una, ma sono invece centinaia.

Alcuni di questi bambini erano affetti da patologie impronunciabili, i cui danni erano evidenti, ma poco comprensibili.

Davanti a delle anime innocenti, ferite e segnate in quel modo, e qui si torna alle prime righe di questa storia, i genitori avevano una reazione per Mad inspiegabile.

Non era un caso che ci fossero volontari solo donne, forse aveva intravisto qualche uomo al corso, ma la percentuale era anche minore del dieci a uno.

Le madri di questi bambini, quasi sempre restavano sole, senza il padre che in qualche modo spariva.

Solo una volta, su centinaia di casi, aveva visto un padre senza madre, poche altre volte entrambi i genitori.

Chissà se anche nel regno animale qualche specie si comportava ugualmente: gli elefanti ad esempio creano una società matriarcale: le madri si occupano dei cuccioli, ma è il padre che da’ l’andatura del branco ed aiuta i più piccoli.

Com’era possibile che l’essere umano, così progredito, così acculturato, tecnologico, erudito in tante discipline utili ed inutili, invece era così incapace, uomini così deboli al confronto di madri così coraggiose?

Il compito dei volontari era fare compagnia ai bimbi nelle loro stanze per dar qualche ora d’aria, a volte un intero pomeriggio, a genitori che vivevano stremati quei momenti.

E una di loro si occupava della stanza dei giochi: questo era il compito di Mad.

Lì dentro c’era un po' di tutto, un calcetto, un flipper di legno, tanti giochi di società, ma soprattutto puzzle, non di troppi pezzi, al massimo sui cinquanta.

A lei piaceva quello di un cavallo bianco in un prato verde.

Divenne il suo preferito perché Nino, un piccolo ragazzo napoletano, appena entrava nella stanza ci posava la mano destra sopra e diceva sempre la stessa frase: “facimmo o’cavallo”, e lei ripeteva con un dialetto abbozzato, scherzoso e impreciso da milanese qual’era: “vabbuono facimmolo”.

Lui sorrideva, un po' per la stranezza di quella pronuncia inascoltabile, ma erano le loro parole segrete d’ordine e contrordine che si scambiavano. Ogni volta.

Non parlavano molto, poche frasi, ogni tanto le mani si sfioravano, ma entrambi non ci facevano caso.

La madre di Nino un giorno raccontò a Mad che quello era il momento preferito del figlio, fare quel puzzle con lei.

Lo sguardo della madre mentre glielo raccontava le avevano fatto velare gli occhi di lacrime, ma era stata in grado di trattenersi.

 

In quella foto di quella comunione fatta al lago, dopo tanti anni, rivedeva tre bambine agghindate a festa, la festeggiata era quella più grande, quella che conosceva, anche lei con una malattia rara, lei che stringeva la sorellina a sé, come per proteggerla, mentre il mondo avrebbe dovuto abbracciare lei.

Non ne ricordava bene il nome, ma sapeva che era guarita e che poi era stata bene.

Mad decise di uscire quel giorno e si diresse in un negozio di giocattoli.

La zona dove era cresciuta con la sua famiglia era tutta diversa oggi, tanto tempo era passato dalla sua giovinezza, non esisteva più il panettiere, il fruttivendolo e neanche l’edicola che aveva aperto per ultima, ma quel negozio era rimasto identico, stessa scritta, stessi colori, stesse vetrine.

Il negozio di giocattoli, l’Arcobaby di Piazza Salgari 2, era rimasto immutato.

La signora che le venne incontro era la stessa che vent’anni prima aveva impacchettato tutti i suoi regali di Natale.

“Buongiorno, vorrei un puzzle, massimo di 50 pezzi, ce l’avete con un cavallo?”.

“Vado a vedere” le rispose la signora ottantenne e si diresse nel retrobottega.

Mad restò in silenzio ad aspettare, guardando giocattoli nuovi e impolverati che l’avvolgevano in un’altra stanza dei giochi che la vita le aveva riservato.

Prima che la signora tornasse, uscì dal negozio, una fitta le aveva trafitto il petto, aveva bisogno di respirare aria fresca, anzi fredda, poi lentamente iniziò a stare meglio.

La signora dei giocattoli tornò a mani vuote, con un’espressione dispiaciuta, le due donne si guardarono attraverso il vetro per qualche istante.

Anche lei la riconobbe.

2 commenti

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2 commentaires


Membre inconnu
10 sept.

Una dei percorsi del volontariato. Hai provato ad inviarlo all'Abio?....

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Membre inconnu
26 août

Che bello quando "succede poco", ma si muove molto... Grande Max!

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